venerdì 2 dicembre 2016

Ecosistema Lago

“Un ecosistema è un insieme sistemico definito (spesso chiamato “unità ecologica) costituito da organismi viventi, animali e vegetali, che interagiscono tra loro e con l’ambiente che li circonda.  Come tale  esso è una porzione dell’ecosfera e quindi della biosfera. Ogni ecosistema è costituito da una o più comunità di organismi viventi che interagiscono tra di loro; una comunità è a sua volta l’insieme di più popolazioni costituite ognuna da organismi della stessa specie”


Il Lago
Il bacino idrografico del lago di Bolsena si estende su un’area di 273 km2 ad una quota media di 490 m. s.l.m; la superficie lacustre è di 114 km2 circa e si trova ad una quota media di 305 m. circa s.l.m.: la profondità massima misurata è di 151 metri e quella media di 81 m.; il tempo teorico di ricambio di tutta l’acqua presente nel bacino è stato misurato in 120 anni anche se, durante il Congresso Internazionale “Residence time in the lakes” sul tempo di ricambio dei laghi tenutosi a Bolsena nel 2002, questo parametro andrebbe elevato a circa 300 anni per una serie di eventi che nel tempo potrebbero incidere sulla salute dell’intero bacino idrico.
Il Lago di Bolsena è classificato come oligo-mesotrofo, per il basso contenuto di sostanze organiche e sali nutritivi disciolti in acqua; acqua che attualmente conserva ancora una discreta trasparenza ed una buona ossigenazione, sia in superficie che in profondità.

L’ecosistema lacustre
Sono almeno tre le zone che formano l’ecosistema lago: la zona litoranea, caratterizzata da acque basse, abbondante vegetazione ripariale ed acquatica con ricca presenza di specie animali; la zona delle acque interne, che si estende fino alla profondità a cui arriva la luce e dove vivono numerosi organismi planctonici; la  zona profonda, al di sotto del livello a cui arriva la luce, caratterizzata dalla presenza di poche forme di vita, tra le quali funghi e batteri.
Nel gergo dei pescatori locali le tre zone corrispondono grossomodo a tre profondità dell’acqua, misurate con strumenti non convenzionali: cejo (acqua di bassa profondità), stracejo (acqua di media profondità), cupo (acqua molto profonda).

Cannaiola
Un modo per spiegare semplicemente un sistema complesso, è quello di raccontarlo:  la prima regola, essenziale per chi non ha mai frequentato il lago di Bolsena, fa ricorso all’immaginazione dato che, per cogliere i vari aspetti di questo mondo lacustre, la seconda regola prevede che sia necessario camminare lungo le rive e tra i canneti, immergere i piedi in acqua e procedere per qualche metro, poi scivolare sotto la superficie e spingersi sempre più in profondità fino a non vedere più niente. 

Airone cinerino
Il primo ambiente, la zona litoranea dove si innesca la catena alimentare, è quello classico composto da Canne palustri e canne comuni, tifeti e scirpeti. Lì in mezzo ai canneti, tra la sabbia e l’acqua, si potrebbe vedere  e sentire il Bufo bufo, un bell’esemplare di rospo,  che gracida a tutto volume insieme alla Rana verde;  oppure si potrebbero avvistare insoliti intrecci di rametti  dove il  Cannareccione e la Cannaiola fanno il nido o covano le uova, mentre le Folaghe si cibano delle alghe semisommerse e Gallinelle d’acqua fluttuano sull’acqua.
Sempre sulla spiaggia un timido Airone cinerino scruta l’orizzonte e vola via, al contrario del Tarabusino che invece è intento a costruirsi il nido. Ma è nel silenzio e nella quiete che si avverte uno strano movimento: è una Natrix natrix, una biscia d’acqua che, avvistata una possibile preda,  si sposta da un canneto ad un altro con movimenti veloci e sinuosi nuotando a pelo dell’acqua, quasi senza toccarla. 
Biscia d'acqua - Natix natrix

In queste acque basse depongono le uova numerose specie ittiche, che così entrano a far parte dell’ecosistema acquatico formato da prede e predatori. Non di rado si intravedono il Cavedano, il vorace Persico sole, il Ghiozzetto di laguna, la particolare Gambusia che si nutre di larve di zanzara, il Persico reale
Il Poligono anfibio e il  Ranuncolo a foglie capillari solleticano ancora i piedi che poggiano sul fondo; ma basta un passo in più per accorgersi che l’acqua sta diventando più alta e che le specie vegetali cominciano ad avere le radici. Ormai, immersi tra 2 e i 5 metri di profondità,  su fondali che cominciano a diversificarsi per composizione si  trovano altri tipi di alghe: la Brasca arrotondata, il Ceratofillo comune e la Vallisneria, le Ranocchine che crescono in acque limpide, su fondali sabbiosi-argillosi.  Sotto la superficie e tra questo tipo di vegetazione , la vita pullula di specie ittiche.
Più o meno da queste parti, si potrebbe scorgere una di quelle grandi Carpe che fanno la felicità dei pescatori sportivi e  con un po’ di fortuna si potrebbe anche vedere un bel Luccio che, appostato tra le alghe, aspetta la sua preda per cibarsi. Nella zona successiva, sotto la  superficie iniziano le vaste praterie di Characee, alghe che da sole occupano circa l’80% del fondale. Crescono fino a 15 metri di profondità, cioè fino a dove la luce  solare riesce a penetrare. Fuori dall’acqua, invece, un incontro con il Gabbiano comune o le Anatre tuffatrici è sempre possibile. 
Poi, piano piano, l’acqua diventa più fredda e il buio inizia. Ma la catena alimentare che si è innescata tra i canneti sulla riva del lago, non finisce. La zona buia è quella dove il plancton costituisce la riserva di cibo di un altro pesce che qui ha trovato l’habitat ideale per vivere. Introdotto per incrementare la pesca sul finire del 1800, depone le uova in fondali bassi per poi inoltrarsi nell’acqua profonda dove si nutre di plancton: il pregiato Coregone (o Lavarello) è il pesce nella rete del pescatore che sulla barca dalla forma triangolare sta tornando a riva.   
Sotto e sopra la superficie, adesso si inizierebbero a vedere i fondali rocciosi delle isole e nei paraggi si sentirebbero le voci dei  Gabbiani reali e si vedrebbero i Cormorani. Intanto, un’altra riva è all’orizzonte: nell' acqua di lago che scivola verso il fiume, l'incontro è con la rinomata anguilla che ne ha risalito il corso, mentre altri canneti e altre acque basse ricordano che anche qui c'è una catena alimentare innescata tra i canneti, dove un Cannareccione fa il nido e un'anatra tuffatrice ha appena preso un pesce. 

Fragilità del sistema
“Un ecosistema si definisce fragile o poco resiliente se ha un basso livello di biodiversità (animale, vegetale, ecc.) perché più debole nei casi di stress ambientali (intossicazione, introduzione di specie diverse più aggressive, ecc.) rispetto ad uno a più elevato livello di biodiversità, più resiliente, il quale è favorito per la sua sopravvivenza e per la quantità di biomassa (vegetale, animale ecc.) che ne costituisce l'habitat.” 


Svasso maggiore
Cormorano
Il Lago di Bolsena, le due isole e l’alto corso del fiume Marta sono stati dichiarati  Siti di Interesse Comunitario (SIC) dalla Comunità Europea che li ha presi, è il caso di dirlo, nella  rete ecologica Natura 2000 la cui finalità è la conservazione del patrimonio naturalistico del continente europeo. (Direttiva habitat/uccelli - Rete Natura 2000)
Il grande lago vulcanico e le sue colline ospitano attualmente 14 specie protette inserite in 4 habitat naturali individuati dalla Direttiva Habitat “relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche”.
Sottoposte a protezione perché vulnerabili sono piante come il Giunco fiorito e la Ninfea Gialla; pesci come il Vairone e lo Spinarello sono in diminuzione, se non addirittura già scomparsi; di grande rilevanza sono uccelli come il Tarabusino e la Strolaga, mentre raro è ormai lo splendido Martin pescatore; presenti e osservabili sono il Nibbio bruno e il Falco pecchiaiolo, rapaci diurni che nidificano sulle colline; i boschi di Leccio dell’Isola Bisentina sono considerati già dal lontano 1979 “biotipi di rilevante interesse vegetazionale meritevoli di conservazione in
Italia”(Società Botanica Italiana)


Gabbiano reale
Tarabusino
Sembrerebbe un quadro idilliaco dove ogni essere vivente ha la sua naturale ragion d’essere con precisi rapporti di scambio e sostenibilità, se non fosse che, nascoste o estremamente visibili, esistono delle criticità che rendono instabile l’equilibrio delicato di questo ecosistema. 
Evidenziare i punti critici non è semplice, ma seguendo la storia recente del  bacino lacustre, ecco a grandi linee ciò che emerge tra le spennellature colorate del bellissimo quadro: 
  • presenza di scarichi fognari, sversamenti di fitofarmaci provenienti da zone coltivate; 
  • prelievi incontrollati per irrigazioni; 
  • riduzione della vegetazione litonarea, con il conseguente impatto negativo sugli uccelli che nidificano tra i canneti e sui pesci che depositano le uova tra la vegetazione semi-sommersa e sommersa; 
  • sbarramenti posti lungo i corsi d'acqua e lungo l’emissario che impediscono gli spostamenti della fauna ittica che si riproduce nel lago o in mare;
  • introduzione accidentale e/o errata di specie non originarie (pesce gatto, persico sole, persico trota, gambero rosso della Lousiana; tartarughine dalle orecchie rosse della California; oche canadesi, cigni; nutrie);
  • pesca sportiva incontrollata (introduzione nella catena alimentare di farine per pasturazioni);
  • gestione e conservazione dei corsi d’acqua immissari, spiagge e canneti; 
  • cambiamenti climatici globali che influenzano negativamente il ciclo riproduttivo dell’avifauna e delle specie ittiche; 
  • cambiamenti climatici globali che influenzano la circolazione ventosa del lago utile al rimescolamento dell’acqua superficiale e profonda.

Sostenibilità
Certamente lottare contro i cambiamenti climatici globali è uno sforzo macroscopico; ma nel microcosmo di una bacino lacustre con un ecosistema chiuso questa strana parola -sostenibilità- è l'unica soluzione possibile. Risolvere le criticità attuali è il passo essenziale, prima che sia troppo tardi; mentre intervenire in modo adeguato e corretto sull'ambiente significa anche rispettare e valorizzare le attività di pesca, agricoltura e turismo delle popolazioni rivierasche. 
Strano ma vero: anche gli esseri umani sono parte integrante di questo ecosistema lacustre, delicato, fragile e tutto da proteggere con scelte mirate alla sostenibilità, alla conservazione ed alla sopravvivenza del delicato ecosistema lacustre.  

Egretta garzetta




©tutti i diritti riservati
                                                                                  

lunedì 20 giugno 2016

Fiori, colori, profumi. Floralia e le ortensie

Blu Hydrangea
Il regno di Floralia è di nuovo apparso per le strade di Bolsena in occasione della Festa delle Ortensie, una manifestazione nata ormai più di un decennio fa e diventata un appuntamento annuale consueto, quasi fosse il segnale di inizio della nuova stagione estiva.

Dalla piazza centrale a buona parte del centro storico è un susseguirsi di piante, fiori, profumi, colori che si uniscono a prodotti di artigianato e enogastronomia.
Camminando per le strade, trasformate in una fitta giungla di piante di qualsiasi tipo, si nota però che gli espositori di ortensie, compresi gli organizzatori, sono rimasti  in pochi e la pianta protagonista della festa sembra aver assunto un ruolo marginale nel contesto dell'intera manifestazione. Eppure le ortensie ci sono a Bolsena, e sono anche tante.
Si trovano sullo sfondo, e lo sfondo è il viale che porta al lago, è il lungolago: lì c'è un vero tripudio di ortensie di diverse specie, anche pregiate, diversi colori, diverse forme. Un ampio giardino pubblico con angoli suggestivi, dove camminare tranquilli, sedersi e godersi l'orizzonte.

Menù d'oriente
Un bel paradosso, forse voluto o forse no, se ci si ricorda che la manifestazione è nata dalla passione di alcune persone e dalle loro collezioni private. La prima festa si chiamava "Ortensi...amo la città".
Più o meno strutturata come l'evento attuale, portò gli appassionati locali di questa infiorescenza ad omaggiare Bolsena con la piantumazione, proprio al viale, di diverse varietà di ortensie. Il percorso di "visione" era forse più articolato di quello attuale, ma la sostanza era quella di creare una sorta di open-garden in cui le piante principali fossero proprio le ortensie. Strada facendo, l'obiettivo è stato raggiunto: Bolsena è ora splendidamente "ortensiata", ma la manifestazione è leggermente cambiata, come è giusto che sia.


Limongiallo 
Proprio per i cambiamenti  avvenuti e con le ortensie che hanno creato un vero e proprio giardino pubblico percorribile a piedi, la stupenda passeggiata dalla piazza al lungolago, forse sarebbe il caso passare da una Festa delle Ortensie ad un evento che, mantenendo inalterato il contenuto attuale,  si aggiorni nel nome.
Non "Bolsena in fiore", nome banale usato ormai per tutte le manifestazioni di tale genere, ma  un nome che riconduca a ciò che letteralmente è questa manifestazione.


Una variopinta mostra mercato di fiori (tanti, di tutte le specie), di colori (tanti, compresi quelli prodotti dagli artigiani), di profumi e sapori (tanti, di fiori e piante e di prodotti enogastronomici).


Metallika
Exotica

Ironia della sorte

Fior d'arancione


                                                                   ©tutti i diritti riservati
                                                                                     




venerdì 8 gennaio 2016

La Rocca in Castello

Occupa la parte più alta del centro storico, quartiere Castello, in posizione dominante su Bolsena: ammira il lago, osserva le colline, spazia sull’orizzonte. Austera quanto basta, semplice costruzione con quattro torri angolari, pianta trapezoidale, un residuo di ponte levatoio.
Eppure la Rocca Monaldeschi della Cervara dimostra di essere un edificio dal carattere imponente specie se vista dal basso.


Antefatto
Nel 1157, il papa Adriano IV ordinò la fortificazione dei borghi che si trovavano sul tracciato della Via Cassia in previsione dell’arrivo delle truppe di Federico Barbarossa.
Il piccolo centro di Bolsena fu dotato di mura per consentire la difesa  e la protezione degli abitanti. In quel periodo, vista la piccolezza del borgo medioevale di Bolsena e nonostante la posizione strategica sulla direttrice di Roma,  non c’era bisogno d’altro.
L’arrivo delle truppe imperiali al seguito di Enrico VI  nel 1186 non  fu indolore e il villaggio si ritrovò con un sistema difensivo semidistrutto, di nuovo in balìa di qualsiasi potenziale nemico.

Sulla scacchiera, torri e pedine
Nella vicina Orvieto, nel frattempo, si stavano sfidando due potenti famiglie per il predominio dei feudi: i Filippeschi, di parte ghibellina, e i Monaldeschi, di parte guelfa.
Lo scontro fu tale che perfino Dante li prese come esempio di discordia e di disordine violento che non guardava in faccia nessuno    
 “Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom senza cura:
color già tristi, e costor con sospetti”
(Dante Alighieri - Divina Commedia: Purgatorio, Canto VI)

Questo era il clima, prima che una delle due famiglie prendesse il sopravvento sull’altra e iniziasse a scalpitare per prendere possesso di altri territori vicini, conquistando feudi e acquisendo sempre più potere.
I Monaldeschi guardarono verso il lago di Bolsena e in poco tempo conquistarono la Val di Lago, annettendo contrade e borghi al proprio feudo. E' con loro e con la costruzione del “torrione”, la torre maggiore, che è iniziata la complessa vita di questo edificio.

Prospetto della Rocca Monaldeschi della Cervara -A.Sacco 1892
La grande torre si appropriò del residuo delle mura difensive erette nel 1157, della strada a basoli (fortunatamente recuperati) e di una porta ad arco, senza privarsene del tutto dato che strada e porta furono comunque ripristinati ricreando all’esterno un nuovo percorso.
Bolsena divenne una sorta di quartier generale della famiglia orvietana che si arroccò  saldamente al Torrione: in pochi anni furono costruite le altre torri, gli ambienti interni e, come ulteriore baluardo difensivo, il cortiletto che si protendeva con gli archi e il ponte levatoio verso il paese.

Poggiando solidamente  su un masso di tufo e posta in posizione dominante, la Rocca di Bolsena aveva preso la forma di  una costruzione da presidio militare debitamente atta al controllo del feudo dei Monaldeschi d’Orvieto.

La popolazione locale ebbe sempre una profonda avversione per la presenza dei potenti sul proprio territorio. A dimostrazione di  questo, nel 1328 si svolse una prima ribellione contro i Monaldeschi che portò alla presa della Rocca da parte dei Bolsenesi che, nemmeno a farlo apposta, dovettero ben presto cercare nella famiglia orvietana un potente alleato contro le truppe di Ludovico il Bavaro. Il nemico comune fu allontanato dalle forze alleate dei bolsenesi e degli orvietani, che avevano trovato in Ermanno Monaldeschi il condottiero vero, l’uomo forte, pratico e diplomatico, che non esitò a limitare le libertà degli statuti a favore di un maggiore controllo dei territori assoggettati.
Alla sua morte avvenuta nel 1337, la famiglia dei Monaldeschi  si divise in quattro rami, tanti quanti erano i suoi figli: apparvero i Monaldeschi del Cane, della Vipera, dell’Aquila e del Cervo o della Cervara.
Furono questi ultimi a reggere le sorti di Bolsena fino al 1451 e ad  avere nelle loro mani l’austera fortezza sul lago, divenuta ormai  Rocca Monaldeschi della Cervara.

Gli alfieri della rinascita
Alla metà del 1400, quasi coincidendo con la morte di Corrado Monaldeschi della Cervara, nei territori dello Stato Pontificio furono i cardinali a gestire, per conto del papa,  le municipalità e furono i cardinali-governatori, spesso apparentati con il pontefice, a reggere il governo di una città o di un borgo.
Bolsena non sfuggì al nuovo sistema di governo e la Rocca Monaldeschi della Cervara fu inizialmente affidata al Rettore del Patrimonio messer Vianese degli Albergati, fu considerata già in stato di abbandono da papa Pio II che visitò le contrade lacustri nel 1461-62, passò nelle mani del cardinal Sanesio a patto che ne curasse il mantenimento e il restauro, quindi  in quelle del cardinale Tiberio Crispo.
Nonostante gli sforzi, l’edificio con caratteristiche da fortezza militare si dimostrava poco pertinente al cambiamento di gestione che prevedeva palazzi signorili al posto dei castelli medioevali.
Abbandonata al suo destino di edificio in disuso, divenne negli anni e nei secoli seguenti ciò che era più opportuno al momento e all’occorrenza: una prigione, un magazzino, un rudere.

Nel 1855, proprio perché diventata un  rudere da restaurare, la Rocca Monaldeschi della Cervara fu oggetto di uno stravagante progetto che prevedeva la sua trasformazione in chiesa. Il progetto, votato ed approvato dalla comunità locale, fu affidato all’architetto Virginio Vespignani ed ebbe il sigillo di papa Pio IX.
Gli eventi storici del nascente Regno d'Itali ne impedirono la trasformazione in chiesa dall’aspetto di un castello, provocando le ire funeste dell’Abate G. Cozza-Luzi che per avere soddisfazione fece approntare un progetto per erigere un nuovo edificio nelle vicinanze del castello  medioevale:  una chiesa di aspetto “tale e quale” alla Rocca.
La chiesa, tuttora esistente, dedicata al Ss.Salvatore, non divenne mai la copia sognata dall’Abate anche se,   guardandola con attenzione, qualche spunto stilistico si intravede ancora.

Rocca Monaldeschi della Cervara - foto archivio British School of Rome 
La Rocca Monaldeschi della Cervara rimase, invece, tale e quale ad una vecchia fortezza medievale in rovina, un maniero con muri esterni ed interni a rischio crollo, torri semidistrutte popolate da rigogliosi ciuffi d’erba sulla loro sommità.

Ancora una volta furono intrapresi i passi necessari per un intervento strutturale riguardante un nuovo progetto che prevedeva la realizzazione alla Rocca del Museo Civico per accogliere i reperti archeologici già conservati nella sede comunale.


A partire dal 1912 alcuni lavori di restauro furono finanziati, altri sottoposti al giudizio delle autorità preposte, per altri interventi di restauro furono richiesti fondi che non arrivavano mai, furono scritte lettere e fatte proteste anche a mezzo stampa. Il progetto sembrava destinato a non vedere la luce fino a quando nel 1961 il Genio Civile di Viterbo impose il suo parere: o si restaurava l’edificio o questo  avrebbe ceduto sotto il peso degli anni di incuria.

Rifiorì così l’idea del Museo, idea che rimase tale fino a quando un comitato di cittadini  intrapendenti, coadiuvati dal Comune, non prese in mano la situazione ed iniziò il lungo processo di restauro e consolidamento della Rocca Monaldeschi della Cervara che, solo dal 1991, ha portato finalmente alla nascita del Museo Territoriale del Lago di Bolsena.
Nonostante non sia stato possibile conservarne la struttura interna originale, la Rocca ha mantenuto ancora visibili la strada a basoli e una parte del muro che la costeggiava, e soprattutto ha potuto  resistere nella struttura portante, austera e semplice, a pianta trapezoidale, con quattro torri angolari da cui si gode una vista mozzafiato su Bolsena, sul lago e sulle colline intorno.




©tutti i diritti riservati